Storie di Malasanità
Ennesima indagine per malasanità: 53enne morto dopo intervento alla colecisti
L’ennesima indagine per malasanità risale al 30 novembre scorso, in circostanze ancora da chiarire, dopo il ricovero in ospedale e un trasferimento d’urgenza al San Camillo di Roma, è deceduto il 53enne Antonio Pendenza, di Avezzano.
Per fare luce sulle cause del decesso è stata disposta un’autopsia, eseguita nei giorni scorsi. La morte è avvenuta al San Camillo di Roma dopo quasi un mese di ricovero succeduto al malore che l’uomo aveva accusato e, in seguito al quale, era stato ricoverato all’ospedale di Avezzano e sottoposto a un intervento di colecisti in laparoscopia. Le sue condizioni con il passare dei giorni erano andate peggiorando. Era stato sottoposto quindi a un secondo intervento chirurgico che però non era stato risolutivo. Da qui la decisione di trasferirlo all’ospedale San Camillo di Roma, dove è morto.
Il decorso giudiziario per l’indagine per malasanità
La moglie e le due figlie dell’uomo hanno presentato alla Procura una circostanziata denuncia, che ha fatto poi aprire l’indagine per malasanità. Agli atti dell’inchiesta c’è la ricostruzione di oltre un mese di sofferenze, a partire da quell’intervento avvenuto nel reparto dell’ospedale di Avezzano. L’operazione era stata eseguita a Chirurgia, ma il decorso post operatorio aveva subito presentato delle complicazioni.
In particolare, secondo la denuncia, le condizioni dell’uomo invece di migliorare erano andate subito peggiorando. Tanto da costringere i sanitari ad un nuovo intervento, segno evidente che qualcosa non era andato per il verso giusto. All’uscita dalla sala operatoria, dopo il primo intervento – stando ai familiari – i sanitari avrebbero riferito che il paziente sarebbe stato dimesso dopo qualche giorno. Le cose, purtroppo, non sono andate così. Le condizioni infatti non sembravano migliorare, anzi col passare dei giorni si sarebbero aggravate tanto da decidere il trasferimento d’urgenza all’ospedale romano del San Camillo, dove si è verificato il decesso.
L’operazione avvenuta attraverso chirurgia mininvasiva
La chirurgia mininvasiva è un insieme di tecniche che permettono di svolgere una procedura chirurgica attraverso tagli di pochi centimetri, riducendo al minimo il trauma dell’operazione. Rispetto alla chirurgia tradizionale (a cielo aperto) che prevede un taglio di parecchi centimetri per esporre la parte da trattare, la tecnica mininvasiva permette di raggiungere l’area su cui intervenire con degli strumenti come telecamere, luci e bisturi, che passano attraverso fori di qualche centimetro. Lo sviluppo di tecniche mininvasive si è avuto negli ultimi quarant’anni. Anche se la ricerca e lo studio risalgono al XIX secolo, il primo intervento è del 1987. Un medico francese, il Dr. Phillipe Mouret ha infatti completato in quell’anno la prima colecistectomia con tecnica laparoscopica (asportazione della cistifellea).
Questa procedura è stata sviluppata partendo dalle conoscenze acquisite nella diagnostica applicata soprattutto alla ginecologia. La laparoscopia diagnostica, già utilizzata in passato soprattutto per analizzare la cavità addominale, si è evoluta fino a diventare una delle tecniche chirurgiche più utilizzate. Rientrano nella chirurgia mininvasiva infatti la laparoscopia, l’endoscopia e la chirurgia robotica. Con la chirurgia mininvasiva oggi si possono fare tutta una serie di interventi: oltre all’osservazione e alla diagnosi, si possono asportare parti anatomiche e tumori, ripristinare funzionalità a livello di cuore polmoni, inserire protesi (ginocchio e anca), fare dei trapianti (rene)…
Uno dei suoi principali punti a favore è che l’intervento mininvasivo, con le sue incisioni di dimensioni ridotte, riduce il trauma, quindi il tempo di ricovero e riabilitazione. C’è inoltre un minore rischio di infezione e un migliore risultato estetico. È alla luce di questa caratteristica fondante del trattamento chirurgico mininvasivo che la denuncia è stata presentata, in quanto non sussistevano i presupposti per ritenere che l’intervento subito dal paziente fosse da classificare come a rischio.
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